“La vulvodinia è un inferno di fiamme che si attraversa in silenzio”. Il titolo del primo articolo che ho letto sull’argomento, tornata in ufficio dopo aver avuto la mia diagnosi. Questo articolo non faceva altro che spuntare fuori tra i primi risultati, ogni volta che su google digitavo questa parola. Vulvodinia. È un inferno di fiamme. Che si attraversa in silenzio.

Peccato che io zitta, non ci sappia stare.

Da qualche anno, mentre vivevo una nuova travolgente relazione d’amore, per giorni dopo i rapporti avevo una sensazione di dolore, e durante mi sentivo come tirare, come se mi stessi per spezzare. Lo avevo detto al mio ginecologo che aveva dato la colpa ai perizomi.
Il fastidio, oltre a darmi qualche pensiero era tollerabile, e così sono andata avanti con la mia vita e le mie ambizioni. Lavoro, corse sui mezzi pubblici, vita sociale, trovare spazio per una storia nella mia vita. Le sfide di molti, le sfide che avevo l’energia per affrontare.

Poi, ho dovuto tirare il freno quando, dopo un lungo e sudato concerto estivo, durante il quale senza molti pensieri avevo messo dei jeans dal cavallo stretto, è esplosa la malattia. Pensavo fosse una banale candidosi e così l’ho curata con un farmaco consigliato in farmacia.
Non è passato, è peggiorato, ho sanguinato. Sono tornata dal ginecologo che mi ha prescritto altri farmaci che non sono serviti, ed ho sanguinato di nuovo. Un altro mese è passato.

Gli ho scritto nel panico durante le vacanze estive: il dolore, il prurito e il bruciore non facevano che aumentare. Mi ha risposto a monosillabi e, sentendomi in imbarazzo e in difetto, ho messo in valigia i pantaloni più comodi che avessi e sono partita per le vacanze. Finalmente un po’ di tempo da dedicare alla coppia e alla sessualità, mi dicevo. E invece no, perché di riuscire ad avere rapporti non se ne parlava. Stavo male. Abbiamo deciso di aspettare la fine della villeggiatura e una volta tornati a casa, abbiamo avuto un unico rapporto. Da allora i dolori sono solo peggiorati. Ricordo un giorno di settembre, in ufficio, in cui nel piegarmi per buttare qualcosa nel cestino sotto la scrivania, mi si è strappata la pelle, e ho spontaneamente urlato “ahi!”. I colleghi mi hanno chiesto cosa fosse successo, e non avevo idea di cosa rispondere. Ho tergiversato e ne abbiamo riso. 

A quel punto ho capito che era il caso di sentire un altro parere medico. 

Ad ottobre sono andata a fare una visita specialistica ed ecco la diagnosi. Vulvodinia. Questa parola la ripeto spesso, perché si imprima bene nelle menti, perché tutti insieme possiamo spezzare un tabù: il dolore intimo femminile NON È NORMALE! Sono iniziate le cure, 2 o 3 volte a settimana mi recavo al centro medico in orario lavorativo, trafelata, per farmi infilare un aggeggio dentro che attraverso piccole scariche elettriche avrebbe dovuto rieducare i miei nervi alla percezione del dolore. Sono stati mesi lunghissimi, durante uno dei periodi lavorativi più stressanti che abbia vissuto. Ricordo tutto come se fosse un unico giorno, come onde che vanno e vengono ma l’acqua resta sempre la stessa. Non c’era mai sole, vedevo grigio, ad ogni seduta al centro medico c’era un problema e ho dovuto interromperle diverse volte.

Sono caduta in depressione. Al lavoro aspettavo un passaggio di ruolo molto importante per me che non è avvenuto, io ero spesso assente e c’erano persone più preparate. Mi chiedevo, cosa pensano i colleghi delle mie fughe al centro medico? avevo paura di risultare poco efficiente, ed era difficilissimo restare sul pezzo con tutti quei pensieri per la testa. Il sesso era ormai diventato un sogno lontano. Due mesi senza farmi sfiorare. Il desiderio però non era calato e soffrivo di questo: non poter prendere e dare l’intimità che ho sempre sentito necessaria in una relazione. Non avere controllo sul mio corpo. Pensare a tutte le donne che stanno bene, a chi può offrire più di me al mio partner. 

Continuavo tutti i giorni ad alzarmi ed andare in ufficio, dove c’erano finestre che davano su altri palazzi e non entrava un raggio di sole. Aspettavo solo di tornare a casa per buttarmi sul letto. Piangevo spesso. Con la visita di dicembre la ginecologa mi ha prescritto degli antidepressivi, che si usano quasi sempre per la vulvodinia per la loro azione rilassante e non per questioni psicologiche. Spaventata, speravo di risolvere prima di arrivare a quel punto, e invece mi toccava prenderli. Iniziata l’assunzione dei farmaci, mi sentivo in una bolla per le prime 5 ore della giornata, deconcentrata, faticavo a distinguere quello che avevo sognato da quello che era successo. Ero ancor meno sul pezzo. Il lavoro che volevo è stato dato a qualcun altro.

La mia abitudine, se avevo un problema, era anestetizzarmi un po’. Fare una bevuta tra amici, mangiare, una sana scopata, una canna… La vulvodinia mi ha tolto questi anestetici ed è rimasta solo la forma più nitida e trasparente, svelata di me, quella che non può fare altro che affrontare i suoi demoni. E non l’ho fatto a cuor leggero. Per questo la vulvodinia, io la ringrazio, perché mi dà il coraggio oggi di stare, forte sui miei piedi, dire “eccomi” e non avere paura.

La dottoressa mi ha gradualmente aumentato le gocce antidepressive, mi ha detto che io non posso mai abbassare la guardia e bere un bicchiere di troppo. Che nel mio caso è semplicemente un bicchiere di numero: il giorno dopo pagherò il conto sottoforma di bruciori che sembrano scottature di quando ti poggiano per sbaglio una sigaretta addosso.
I farmaci per la vulvodinia, oltre all’antidepressivo in questione, non sono mutuabili. Di professionisti specializzati, non ce ne sono nel sistema sanitario pubblico. I ginecologi non conoscono o non hanno approfondito la malattia per la maggior parte. Si paga fino a 500 euro per una visita. La vulvodinia è una malattia per ricche. Il conto in banca ne risentiva ma ho la fortuna di avere una famiglia che mi aiuta. Dove sarei adesso, mi chiedo, se loro non avessero potuto sostenermi fin qui?

Ne parlavo con le amiche che mi capivano e non mi capivano, e per la maggior parte mi dicevano che era strano e, ironia della sorte, mi parlavano delle loro vite sessuali offrendomi un bicchiere di vino. Era arrivato anche febbraio e la situazione non migliorava. Non volevo accettarla, non volevo arrendermi. E un giorno è arrivato qualcosa che per me ha fatto la differenza. Una cara amica mi ha segnalato un servizio de Le Iene, che parlava della malattia, e stava andando in onda in quel momento. Ho cercato subito lo streaming, nel buio della mia stanza, sotto le coperte, da sola. E l’ho visto. E ho pianto. Quattro ragazze raccontavano la loro storia. Ragazze con sintomi simili ai miei, parlavano dei jeans attillati a cui avevano dovuto dire addio, insieme a cerette totali e biancheria sexy, in questo sistema che ci definisce come donne senza lasciare spazio alle nostre peculiarità. Parlavano della voglia di sentirsi capite, dell’avere a che fare con una malattia cronica per cui non esiste approccio che sia sicuro e di successo. Del portare con sè una condizione invisibile. Segnalavano un gruppo facebook, e non ci ho pensato due volte a iscrivermi. 
“Unite per la vestibolite” credo che mi abbia salvato la vita. Quando lo stato non provvede a delle situazioni di disagio, dove è possibile, ci si auto-organizza. Così hanno fatto ormai quasi 3000 ragazze, iscritte a questo gruppo (si stima che tra il 15 e il 18% delle donne soffra di vulvodinia almeno una volta nella vita, quindi questo è anche un piccolo campione).
Ho scoperto un mondo: mi hanno consigliato ed ho consigliato, dalle piccole accortezze alle cose di grande importanza.
Grazie a questi consigli, ho cominciato a praticare yoga per il pavimento pelvico, meditazione e fare automassaggi. Mi sono fatta consigliare un centro medico specializzato in patologie vulvari, ho fatto sondaggi per scoprire quale dottore facesse più al caso mio, ed ho cambiato medico curante. Ho letto sfoghi di donne che non sostenevano più la situazione, ho risposto. Mi sono scritta con persone che avevano bisogno di una mano, o che potevano darmela. Donne di tutte le età, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le etnie. Provenienti dal nord, in cui la sanità privata arriva dove la pubblica si ferma, e dal sud, dove spesso è assai difficile trovare qualcuno di competente da cui essere curate. Donne con cui ho pianto, riso, esultato, bestemmiato a distanza, mentre il covid-19 e il distanziamento fisico erano alle porte.

Io queste donne le sentivo sempre più vicine.

Ho letto di persone che avevano interrotto le cure per problemi economici, di ginecologi che avevano dato della pazza alla propria paziente, di compagni che avevano affrontato con sostegno e forza d’animo la malattia come fosse anche loro, di mariti che avevano lasciato mogli, di ragazze che dopo 11 anni riuscivano di nuovo ad avere una vita sessuale.

Queste donne mi hanno aiutato e io voglio aiutare loro.

Il senso di questo viaggio è capirsi, appoggiarsi l’un l’altro, ascoltare il proprio corpo, lasciarlo parlare. Accettare che non è sempre tutto come si vuole. Il senso di questo viaggio è permettere a tutte queste donne di avere delle buone chance di guarigione; e dare a coloro che ci circondano la possibilità di capirci. Lasciar cadere il velo e mostrarci senza vergogna per quelle che siamo. Che non è sbagliato, è solo diverso.
Lo stato può aiutarci, e possono farlo le persone più vicine a noi, sostenendoci. Abbiamo deciso di farci sentire, e da ciò sono nate, dopo lunghe telefonate, interessanti iniziative per aiutare tante ragazze e donne come noi a riconoscersi nei sintomi che leggono, a trovare dottori competenti, ad utilizzare un motore di ricerca per capirci di più, a sapere che c’è una rete su cui rimbalzare, quando gli sembrerà di cadere nel vuoto.
“La vulvodinia è un inferno di fiamme che si attraversa in silenzio”, è stato scritto. Molte, però, non l’attraverseranno in silenzio se qualcuno, con orecchio attento, saprà stare ad ascoltare.

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