Un quadro semplice – ma accurato – sulla complessità della vulvodinia: chiariamo qualche dubbio!

La vulvodinia è una patologia complessa, originata e sostenuta da diversi fattori e che a sua volta innesca dei cambiamenti non soltanto a livello vulvare.
Abbiamo approfondito questi aspetti con la dottoressa Barbara Del Bravo, specialista in Ginecologia e Ostetricia. Nella quotidiana pratica clinica, la Dottoressa si occupa di screening dei tumori femminili; di tutta la patologia endocrina dall’adolescenza alla menopausa; di contraccezione ormonale e di tutta la patologia del basso tratto genitale, compresa la vulvodinia. In particolare, è molto attenta agli aspetti del dolore cronico all’interno del quale la vulvodinia compare e, in generale, a tutte le infezioni e infiammazioni recidivanti. È anche una consulente in Sessuologia: una formazione che ritiene di estrema importanza per la propria specializzazione perché è complementare nella cura di una parte del corpo femminile strettamente correlata alla sessualità. Avere competenze in campo sessuologico per la Dottoressa, è un valido aiuto in più per la cura e il benessere di tutte le persone assegnate “donna” alla nascita. 
In questa intervista, la Dottoressa Del Bravo ci spiega come agisce la vulvodinia, tracciando un quadro chiaro e alla portata di tutti della complessità di questa patologia.

(Domanda) Dottoressa quando ha sentito parlare per la prima volta di vulvodinia?
(Risposta della Dott.ssa Del Bravo) Nel 2007/ 2008 ad un congresso nazionale a Palermo con una sezione dedicata.
Avevo già letto degli articoli a riguardo e mi appassionai così tanto a questo tema che nel 2010 organizzai il primo congresso dell’associazione AGITE (associazione ginecologi territoriali) proprio sulla vulvodinia e le sue comorbidità, compresi gli aspetti disfunzionali del pavimento pelvico.
Mi occupo di questa patologia da oltre 15 anni. 

Ultimamente si parla spesso di vulvodinia. Trova che la maggiore consapevolezza degli ultimi anni spinga più facilmente le donne a esporre al proprio specialista il problema?
La percezione del cambiamento nell’incidenza di questa patologia nel tempo è netta però non è chiaro se si tratti veramente di un aumento di incidenza oppure se è solo una diversa emersione. Anche perché, almeno fino ad ora, un’alta percentuale di donne considerava “normale” il dolore vestibolare alla penetrazione.

Secondo lei quanto questa considerazione è (o almeno è stata) indotta da modelli culturali che non hanno risparmiato neanche il personale medico? Le testimonianze raccolte e alcuni studi sembrano suggerirci che a considerarlo “normale” doveva esserci una buona percentuale di medici…

Sì, certamente. Gli aspetti culturali legati alla sessualità femminile hanno spesso contribuito a perpetuare il concetto che il dolore durante i rapporti sessuali fosse accettabile. La sessualità è stata tradizionalmente vista come qualcosa di centrato sul piacere maschile, mentre il dolore è stato erroneamente associato al mondo femminile, basti pensare a come nell’immaginario comune facilmente si associa alle mestruazioni, al parto o alla prima volta. Di conseguenza, molte donne hanno potuto percepire il dolore durante i rapporti come una condizione normale o possono aver avuto dubbi sul fatto che potesse esserci un problema.
Gli stessi modelli culturali hanno influenzato anche il personale medico e in generale hanno contribuito a una scarsa consapevolezza e a una sottovalutazione del problema anche tra gli specialisti del settore.

E dunque, quanto è “a-normale” provare dolore durante un rapporto sessuale? 
È possibile che i primissimi rapporti siano dolorosi soprattutto in funzione della conformazione anatomica o di un ipertono primario del pavimento pelvico che spesso si riscontra anche nelle giovanissime e può essere collegato a determinate pratiche sportive come l’equitazione, la ginnastica ritmica o la danza.
Questi aspetti andrebbero sempre indagati e non sono gli unici: dietro ai rapporti dolorosi possono esserci anche cause più traumatiche, come le situazioni di abuso. Oppure può celarsi una rigida educazione sessuale, soprattutto nel vissuto femminile: basta far caso al diverso approccio che molti genitori hanno nei confronti dei figli a seconda che siano maschi o femmine. Nella naturale esplorazione del proprio corpo è più probabile che sia scoraggiata una bimba anziché un bimbo, perché per una bimba è considerato “inopportuno”. Ma così facendo le si sta insegnando che quell’atteggiamento naturale di scoperta di sé e delle sensazioni piacevoli legate al proprio corpo è sbagliato!  Ed è possibile che questi insegnamenti vengano interiorizzati a tal punto da interferire, una volta adulti, con la propria sessualità.
Come dicevo, sono tutti aspetti di cui tener conto durante l’anamnesi, in particolar modo se si sospetta una vulvodinia. E per molti colleghi questa può essere la parte “noiosa” del proprio lavoro.  Mi spiego meglio: una diagnosi di vulvodinia richiede tempo che spesso i ginecologi stessi non hanno voglia di spendere, perché l’anamnesi deve spaziare sui diversi aspetti della vita di una persona. Ci vuole circa un’ora per fare una diagnosi di vulvodinia che sia davvero completa, talmente sono tante le variabili in gioco.
Diventa cruciale capire che tipo di donna si ha davanti, perché ognuna ha le proprie caratteristiche. Tutte possono avere una predisposizione ma ognuna ha il proprio vissuto e le proprie peculiarità e saranno questi ultimi a differenziare il trattamento, che prevederà di certo una base comune a cui verrà accostato un percorso individuale.
Tornando alla domanda, quindi, se il dolore durante i rapporti persiste anche dopo le prime esperienze in cui l’emotività gioca un ruolo importante, bisogna sempre indagare le cause col proprio specialista perché di “normale” non ha nulla!

Quando si afferma che la vulvodinia è una sindrome cronica cosa si intende? 
Si definisce “dolore cronico” un dolore di durata superiore a tre mesi perché questo è il lasso di  tempo necessario affinché avvengano delle modificazioni biologiche a livello del tessuto nervoso, sia periferico che centrale.
Quindi per “sindrome da dolore cronico” si intende una condizione sostenuta da queste modificazioni.
Il dolore cronico non è più un dolore “sano” ma è un dolore che si è totalmente sganciato dalla causa che l’ha determinato e continua per conto suo. Ha perso la sua funzione principale che è quella di avvisare della presenza di un problema. 
Ci sono tre termini utilizzati per differenziare il dolore: il dolore “nocicettivo” è il dolore “sano” che in presenza di un trauma o di una lesione mi dice “fermati e curati”. Sarebbe un problema se, ad esempio, mi fratturassi una caviglia e non sentissi dolore: continuerei a camminarci amplificando il danno.
Il dolore “neuropatico” invece è un dolore che ha perso questa utilità ed è diventato esso stesso patologia ma che riconosce una causa nota (neoplasia , diabete…).
Poi c’è la nuova definizione di dolore “nociplastico” che come il neuropatico diventa malattia a se stante ma che per il quale non può essere evidenziata una causa certa come per la vulvodinia.

Che succede quando il dolore si cronicizza, quindi passa dall’essere “sano” all’essere patologico?
Quando il dolore si cronicizza, i neuroni cambiano: cambiano nella propria plasticità, nella trasmissione del segnale, cambia la percezione periferica e questo spiega il perché si reagisce con uno stimolo doloroso a qualunque sollecitazione. 
La reazione dolorosa avvertita, a sua volta, stimola la degranulazione dei mastociti che innesca dei meccanismi biologici a catena che daranno il via prima, e manterranno poi, un processo infiammatorio.
Si determina una dispercezione per cui ogni cosa che entra in contatto con la mucosa non è gradita.
A livello periferico è la mucosa stessa a cambiare: si assottiglia. Allo stesso tempo le terminazioni nervose sensitive periferiche tendono ad andare sempre più in superficie verso la cute, generando una sollecitazione continua e un conseguente mantenimento dell’infiammazione.
Ma il vero problema è ciò che accade col passare del tempo a livello del del sistema nervoso centrale. È lì che cambia il modo in cui lo stimolo è percepito: il segnale in arrivo è amplificato e di conseguenza il dolore avvertito risulterà maggiore.
Nel ritardo diagnostico quello che più drammaticamente incide sulla patologia è il tempo che si è lasciato alla stessa di attuare e consolidare tutti questi cambiamenti a livello del sistema nervoso. Il riportare la situazione alla normalità necessariamente richiederà altro tempo. Tempo che una diagnosi precoce avrebbe senz’altro fatto risparmiare.

Esiste un modo per prevenire la vulvodinia?
La vulvodinia è una patologia difficile da prevenire perché originata e sostenuta da molti fattori, anche molto differenti da persona a persona. Però è possibile riconoscere i primi segnali, in modo da rivolgersi allo specialista e attuare tutta una serie di strategie volte a tamponare la situazione in attesa che le terapie facciano il proprio corso.
In generale, è fondamentale invece per tutte abituarsi a buone pratiche riguardo la propria sessualità: se ci si accorge che qualcosa non funziona come dovrebbe, è bene fermarsi e indagare, perché banalmente anche dei rapporti non adeguatamente lubrificati possono innescare dei microtraumatismi che poi portano alla vulvodinia laddove c’è una predisposizione. Lo stesso vale per un perineo contratto durante i rapporti. In entrambe le situazioni, la sensazione dolorosa o il fastidio che accompagna il rapporto non andrebbero ignorati: è importante abituarsi a una sessualità piacevole che è sinonimo di una sessualità sana.
Altre buone pratiche riguardano sicuramente uno stile di vita sano, la giusta attenzione agli sport che non dovrebbero sollecitare eccessivamente il pavimento pelvico, oppure alla detersione che non dovrebbe essere aggressiva ma equilibrata, sia nei prodotti scelti per la propria igiene, sia nella frequenza. Bisognerebbe far caso anche alla scelta degli indumenti che si indossano con una certa frequenza: dovrebbero essere adeguatamente traspiranti. Bisognerebbe fare attenzione anche agli assorbenti: dovrebbero essere utilizzati per il tempo minimo necessario e invece molte hanno l’abitudine di indossare proteggi-slip quasi giornalmente… ognuno degli elementi citati può sembrare un banale dettaglio, eppure sono tutti fattori che in presenza di predisposizione potrebbero autoalimentare il problema.

Le campagne di sensibilizzazione per le giovanissime puntano a riconoscere il fastidio all’uso di assorbenti interni, oltre a quello classico del dolore durante i rapporti sessuali.
Ci sono altri segnali “premonitori”?

Il fastidio avvertito con l’uso di assorbenti interni potrebbe essere un segnale, ma non necessariamente: nelle giovanissime ci può essere anche un po’ di inesperienza e paura nell’utilizzare un assorbente interno, soprattutto nei primi utilizzi e questo basta a determinare una maggiore contrazione dei muscoli e difficoltà di inserimento. Ma se il dolore relativo all’uso di assorbenti interni si ripete, oppure se compare all’improvviso in chi utilizza normalmente questi prodotti, allora andrebbe comunicato allo specialista perché potrebbe essere il segnale di un’allodinia.
L’allodinia è proprio quel fenomeno per cui ad uno stimolo di tipo tattile si ha una sensazione algica, dolorosa (bruciore urente, scossa o altro). Si tratta di un segnale premonitore perché avvisa che c’è stato un cambiamento nella percezione del segnale in arrivo dalle terminazioni nervose sensitive, cambiamento che poi può portare il dolore cronico a instaurarsi. 

Si può guarire dalla vulvodinia oppure una volta instaurata non è più possibile riportare la situazione alla normalità? 
Tutti i meccanismi descritti in precedenza sono reversibili, il che significa che è possibile ripristinare una situazione fisiologica. Quindi, la risposta alla domanda è Sì.
Va però considerato che sono molti i fattori che possono ostacolare il processo di guarigione che può quindi non essere così lineare e immediato per tutte. Ci può volere tempo e questo tempo varia a seconda del quadro clinico complessivo della persona che si ha davanti.
Non si deve intendere però una patologia di dolore cronico come una condizione immutabile: ci sono persone che dopo il corretto percorso terapeutico hanno una remissione completa e probabilmente non avranno più problemi di vulvodinia in vita loro. In questo sicuramente una diagnosi tempestiva aiuta!
C’è chi invece soffre di forme remittenti, in cui la patologia migliora e scompare per poi potersi in alcune occasioni riacutizzare.
Il problema con la vulvodinia è proprio la sua dipendenza da molteplici fattori sia fisici (ad esempio, presenza di patologie associate) che psicologici, perché anche una situazione di grande stress emotivo può determinare un terreno fertile e predisponente alla patologia. Basti pensare che i mediatori del dolore (noradrenalina, serotonina) sono gli stessi mediatori chimici che modulano la depressione e l’ansia. Un tempo si pensava che il dolore fosse un’espressione della depressione e che ci fosse questa dicotomia stretta fra le due patologie.
Oggi sappiamo invece che il dolore neuropatico è biologico, però proprio a causa delle stesse molecole messe in gioco risente delle situazioni di stress. 
Per questo l’approccio multidisciplinare è un approccio terapeutico vincente, perché, se necessario, permette di agire contemporaneamente su diversi aspetti che tenderebbero a mantenere o a riproporre la patologia se ignorati. 

Grazie, Dottoressa, per aver risposto con chiarezza e semplicità alle domande più comuni riguardanti la vulvodinia. Ci auguriamo che le sue parole possano aiutare chi legge a sentirsi meno confuso e più informato in modo da poter affrontare con maggiore consapevolezza il percorso di gestione della patologia.

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