Sempre più evidenze scientifiche riportano che l’approccio multidisciplinare possa essere la strategia vincente nella cura del dolore cronico che caratterizza la vulvodinia.
Ma in cosa consiste questo approccio? Quali sono le figure coinvolte? E cosa si può fare, in qualità di paziente, per affiancarlo?
Abbiamo affrontato questo argomento con la Dottoressa Chiara Marra, ginecologa specializzata in patologie ginecologiche benigne.
La Dott.ssa Marra ci ha dedicato il proprio tempo concedendoci una lunga chiacchierata sulla vulvodinia e il suo inquadramento a 360° e mostrandoci empatia e umanità, nonché una forte passione e dedizione per il proprio lavoro.
Da questa chiacchierata sono venuti fuori consigli preziosi che per brevità e tematiche abbiamo raccolto in un secondo articolo che puoi leggere qui.
(Domanda): Dottoressa, lei si occupa di patologie ginecologiche benigne, ci può spiegare cosa comprende questa branca della ginecologia?
(Risposta della Dottoressa Marra): Per patologie ginecologiche benigne si intendono tutte quelle malattie non tumorali, come
l’endometriosi, le cisti ovariche benigne, l’endocrinologia ginecologica – riguardante le disfunzioni ormonali nella donna – le malformazioni dell’apparato genitale, le malformazioni uterine congenite, i fibromi o miomi e altro ancora.
Nella definizione rientrerebbe alla perfezione anche la vulvodinia, altra patologia di cui si occupa ma, a differenza delle altre, ci ha rivelato di non essersi mai imbattuta nello studio della patologia durante il suo percorso di specializzazione..
Esattamente. Mi occupo di ginecologia e ostetricia dal 2004 ma durante gli anni della specializzazione non ho mai sentito nominare la vulvodinia; è quantomeno strano perché ho frequentato una delle migliori scuole presenti in Italia, in cui non mancavano confronti ed aggiornamenti, eppure non si è mai accennato a questa patologia.
Non so se oggi le cose siano cambiate e mi auguro di sì. In ambito lavorativo però ho constatato che i colleghi formati sulla patologia e disposti ad affiancarmi o sostituirmi non sono molti. Questo si traduce in una lista d’attesa per la prima visita lunga diversi mesi.
Eppure lei lavora in Lombardia, una delle regione a più alta densità di specialisti informati sulla patologia. Nonostante tutto, crede che a livello regionale il numero di specialisti sia comunque insufficiente per il numero di pazienti che necessitano un consulto?
Penso di sì, perché credo che una donna con vulvodinia abbia bisogno di essere seguita nel tempo, soprattutto nell’arco del primo anno di presa in carico, per aggiustare la strategia terapeutica in base alle risposte individuali. Questo richiede tempo e limita il numero di prime visite eseguibili.
Come mai, a suo parere, si parla così di rado di vulvodinia?
Perché è una patologia di cui spesso si ignora l’esistenza e che ancor più di frequente non si conosce approfonditamente. Infatti è una patologia abbastanza complessa e richiede una formazione a tutto tondo: non si può trattare la vulvodinia senza un’adeguata formazione e senza conoscere anche tutte le altre patologie associate ad essa (quelle con cui più spesso la patologia si ritrova in comorbilità, come l’endometriosi, la cistite interstiziale, etc.).
E come in ogni formazione è importante anche l’esperienza. Quest’ultima si acquisisce solo sul campo, col tempo.
Lei come è venuta a conoscenza della vulvodinia?
Frequentando congressi sulle patologie vulvari, ho scoperto la vulvodinia e una serie di altre sindromi dolorose dell’apparato genitale a cui mi sono appassionata. Per mia natura sono molto interessata ai disturbi cronici e ai motivi che tendono a instaurarli e mantenerli. Credo che attraverso disturbi simili il nostro corpo ci stia comunicando qualcosa ed è compito del medico indirizzare la paziente all’ascolto di se stessa.
Durante gli anni di formazione ho molto apprezzato e cercato di fare mio l’approccio di una collega (un medico generico) capace di ascoltare i propri pazienti in modo “attivo”, ossia cercando di sviluppare comprensione e attenzione verso la persona e al messaggio che questa porta (detto esplicitamente o meno). Mi sono poi ulteriormente sperimentata in gruppi di supervisione con psicoterapeuti con condivisione di casi clinici e role playing.
Inoltre, verso il termine della scuola di specialità, fui contattata da una ragazza che faceva parte dell’associazione VIVA. Questa ragazza mi fornì del materiale informativo sulla patologia e mi chiese di seguirla. È tutt’oggi una mia paziente ed è anche grazie a lei se ho approfondito e studiato questa patologia.
Ci parli di più dell’ascolto attivo, sembra un punto molto interessante…
L’ascolto è fondamentale perché spesso, per la paziente vulvodinica, io sono l’ennesima specialista dopo svariati consulti non risolutivi. E magari inizialmente lei è anche ben disposta verso di me, prova a fidarsi nonostante tutto. Ma in un contesto del genere, è naturale aspettarsi una buona dose di sconforto e diffidenza, andando avanti con la terapia.
La terapia in un disturbo cronico richiede tempo e aderenza allo specialista (ossia il proseguire nel proprio percorso di cura affiancate dallo stesso specialista per diverso tempo) da parte della paziente; per questo motivo credo sia importante essere presenti per le donne, a volte anche solo per ascoltare e rassicurare. Se è vero che attraverso lo studio si riesce a trattare la patologia, è altrettanto vero che attraverso la relazione medico-paziente si riesce a curare la persona.
Quando una donna è disperata a causa di un problema che inficia la sua qualità di vita, l’aderenza ad uno specialista è bassa: si sta così male che si è disposte a tentare qualunque cosa, anche a saltare da uno specialista all’altro alla ricerca della terapia giusta nel più breve tempo possibile. Spesso, però, questa pratica non è vincente perché in un disturbo cronico è l’osservazione reciproca nel tempo a dare informazioni utili per capire come la paziente reagisce alla terapia e cosa potrebbe aiutarla. Questo approccio si può applicare solo se c’è aderenza, garantita da un rapporto ‘medico – paziente’ proattivo.
Come si può valutare l’aderenza di una paziente in un percorso di guarigione multidisciplinare, quando esso richiede diversi consulti in contemporanea e con diversi specialisti?
Perché spesso è la confusione a generare nella donna sentimenti di sfiducia, oltre che le passate esperienze non risolutive..
Le responsabilità di questa confusione credo siano da entrambi i lati.
Lato specialisti, c’è un fraintendimento sul senso di lavoro multidisciplinare: non consiste nella paziente che richiede in autonomia il consulto di diversi medici, ma piuttosto nell’affidarsi a un’equipe rodata ad affrontare la patologia a 360°.
L’approccio multidisciplinare è mettere la donna al centro di un’equipe in cui i medici si confrontano per concordare insieme la terapia più indicata; una figura al suo interno ha la responsabilità di coordinare questo lavoro sinergico.
Ciò che invece spesso accade è che l’onere di coordinare gli specialisti ricade sulla paziente; questo non va bene perché si affida il controllo del percorso di cura a chi ha bisogno della cura stessa.
La paziente avrebbe diritto ad affidarsi agli specialisti e a vivere la terapia in assoluta tranquillità, per quanto possibile. Ciò è fattibile solo se un’equipe prende in carico la donna. Attuare un lavoro di squadra del genere, però, non è facile per diversi motivi, tra cui la difficoltà nel trovare specialisti formati e disposti a investire del tempo – tanto tempo – per crescere e formarsi insieme.
Ci sono poi situazioni in cui si prende in carico una paziente già seguita da altre figure, questo è molto frequente anche tra le mie pazienti. Quello che cerco di fare in questo caso è mettermi in contatto con gli specialisti in questione per decidere insieme un percorso comune, liberando la paziente dal peso di scegliere la terapia appropriata tra quelle proposte, ed evitando che la confusione generata da più consulti sfoci nella scarsa aderenza alla terapia.
Questa modalità si avvicina all’approccio multidisciplinare ma è mancante della crescita comune che si avrebbe in una “squadra coordinata”, che è veramente vincente: la sua forza a livello medico, a mio avviso, è proprio la crescita professionale mutuale.
Ciò che tentiamo di ottenere nella mia equipe è il lavoro di squadra, e anzi, colgo l’occasione per lanciare un appello attraverso di voi: se c’è qualche professionista interessato a questo tipo di formazione, è il benvenuto!
Riguardo alla responsabilità delle pazienti, se ne avesse la possibilità cosa consiglierebbe di fare a una paziente per venire incontro al proprio specialista?
La responsabilità della paziente resta quella di mantenersi aderente alla terapia, cosa non facile per le motivazioni descritte sopra.
È giustissimo da parte della paziente studiare, informarsi e far di tutto per guarire, ma spesso vedo donne spendere soldi, energie e speranze in esami “autoprescritti” spesso inutili per la loro condizione.
Questa continua ricerca da parte della donna della terapia adatta è un dispendio di energie enorme e probabilmente è in parte anche responsabilità di noi specialisti che non riusciamo a rassicurare a sufficienza le pazienti.
Quello che la paziente potrebbe fare, forse, è provare ad avere un po’ più di fiducia nelle cose semplici. Spesso la soluzione è sotto agli occhi più di quanto si possa immaginare.
A volte mi è capitato di consigliare semplicemente di aspettare: bisogna dare tempo ai farmaci e agli integratori di fare effetto e fiducia al corpo di trovare un suo equilibrio.
La pazienza ripaga.
Sempre nell’ottica di mantenere l’aderenza alla terapia nel tempo, altra qualità che apprezzo nelle pazienti è l’onestà. Se la terapia proposta risulta troppo difficile da seguire per la paziente, è meglio concordare insieme un percorso fattibile e condiviso: l’obiettivo, dopotutto, è che la persona segua la terapia e abbia fiducia nella cura che sta seguendo per poterne vedere presto i risultati.
In una terapia multidisciplinare, quali sono i due approcci che non dovrebbero mai mancare nel percorso di cura?
Varia da caso a caso, ma direi che un cardine importante è sicuramente la riabilitazione del pavimento pelvico, che credo sia necessaria in 8 vulvodiniche su 10: è raro trovare una donna con vulvodinia che non abbia anche ipertono e che presenti quindi solo componente neuropatica.
La riabilitazione non vuol dire solo TENS ma significa lavorare sull’aumento della consapevolezza del proprio pavimento pelvico. Bisogna imparare a sentire i propri muscoli, a rilassarli, a controllarli.
Poi di sicuro non può venir meno il lavoro sull’infiammazione: cercare di individuare la causa dell’infiammazione e agire con la terapia adeguata.
Questi sono i due cardini imprescindibili.
Ce ne sono altri che consiglierebbe di accostare ai primi due?
Ci sono altri tre cardini importanti e sono l’aspetto nutrizionale, l’aspetto posturologico perché spesso il pavimento pelvico rimane contratto a causa di un problema posturale, e poi quello psicologico, sia come supporto per il dolore cronico, sia per lavorare sull’accettazione del disturbo e sia per andare a lavorare su alcuni aspetti del proprio passato, se la patologia può essere legata a traumi.
Concludiamo la prima parte dell’intervista alla Dottoressa Marra. Leggi la seconda parte: Vulvodinia e farmaci